La civiltà di
un popolo si misura sui miti che ha inventato
e poiché la
stragrande maggioranza dell’umanità
tuttora vive su
mitologie e miti fasulli,
la civiltà è a
tutto oggi un miraggio".
(Gabriele
Palombo)
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Il cambiamento nasce sempre da
una rivoluzione e la rivoluzione altro non è che un movimento, un gesto, un pensiero
inconsueto, inedito, imprevisto. Anche l’evoluzione delle specie viventi è
frutto di queste novità che, più o meno
a casaccio, intaccano l’ordinario ripetersi degli eventi, eppure risulta così
difficile per noi umani cambiare le nostre idee, abitudini, posizioni, vizi
e manie, anche quando queste risultano contrarie
al nostro benessere. Nel regno animale la capacità di adattamento e la conseguente
sopravvivenza hanno determinato la fortuna o la sfortuna di intere specie, nel
caso nostro invece il linguaggio e la sua incredibile capacità di affabulare,
sconvolgere e riscrivere la realtà, ha dato la possibilità di sconfiggere
l’evidenza a favore di immagini simboliche spesso errate e distorte.
Lo stesso potere che ha generato
il mito, la favola, l’arte e la nostra
assoluta capacità di tradurre il mondo in infinite declinazioni quante sono le
parole, ha anche determinato la nostra incapacità a cedere di fronte all’evidenza
dell’errore. In effetti la costruzione del mito è anche un processo privato e
quotidiano, non solo un’esclusiva dei cantori e dei poeti, ma strumento
costante di trasformazione del mondo in riservata coscienza e soggettiva interpretazione.
La memoria e l’abitudine ad adottare un preciso stile interpretativo, genera
nelle nostre reti neuronali dei veri e propri solchi preferenziali, come canali
di erosione che portano l’acqua sempre in una stessa direzione, assetando e
inaridendo il terreno circostante e allagando frequentemente quello dove è
consona a transitare. Tale fenomeno fa si che, al pari dei corsi d’acqua, anche
i nostri pensieri, tendano a scorrere e sfociare sempre nello stesso punto,
anche quando sarebbe necessario cambiare il corso delle idee per permettere di
alimentare nuove prospettive. Siamo tutti vittime della nostra ripetitività,
del nostro essere troppo noi, delle nostro replicare all’infinito le nostre
regole permettendo spesso come unico cambiamento solo quello dell’invecchiare: il motivo per cui “il futuro” fatica a farsi strada è dovuto al fatto che
il tempo necessario ad accettare il cambiamento è talmente lungo che ogni
novità fa in tempo a diventare obsoleta e a somigliare incredibilmente a quel
“vecchio” che doveva rimpiazzare.
Tutti gli animali in natura hanno strategie di
sopravvivenza, la lucertola ad esempio, molla la coda tra le zampe del gatto,
sacrificando una sua parte per salvare il resto, ma sappiamo che il gatto è
molto superiore alla lucertola nella scala evolutiva, per cui con molta
probabilità, la prossima volta che incontrerà una lucertola, con o senza
coda, la afferrerà per la testa, perché
da quell’unico errore commesso avrà imparato. Poniamo l’assurdo che al gatto
venga impiantato un cervello umano e immaginiamolo nella stessa situazione: il suo comportamento
potrebbe risultare oltremodo bizzarro, in quanto pur di non ammettere il suo
primo fallimento, prenderà di nuovo la lucertola per la coda dicendo che
infondo è la sua parte migliore (ci sarà anche chi dirà che la lucertola non si può più
afferrare perché gli manca la coda). Mentre il rettile riproduce eternamente la sua
tattica perché il suo cervello è quasi esclusivamente guidato dall’istinto, il
gatto, oltre ai comportamenti programmati, ha una grande capacità di
apprendimento e più saliamo nella scala evolutiva più l’apprendimento domina
sull’istinto. L’uomo è un animale quasi esclusivamente cognitivo, che sviluppa
le proprie capacità attraverso l’esperienza e l’insegnamento, basti pensare a
quei casi di bambini selvaggi cresciuti in isolamento e poco più competenti di
una scimmia. Nonostante le evidenze
appena descritte, l’essere umano dimostra una grande resistenza ad adottare
schemi e strategie diverse dal consueto, riducendo spesso la sua vita ad un
ciclo di reiterazione di uno stesso errore o distruggendo ciò che ha creato per
l’incapacità di adattare sé stesso, le proprie idee e le proprie certezze ad un
mondo in evoluzione. Paradossalmente l’animale creativo, inventore e
intelligente per eccellenza si ostina a prendere la lucertola per la coda: ciò
avviene nelle relazioni tra genitori e figli, moglie e marito, tra amici, tra
colleghi, tra capi e dipendenti, tra istituzioni politiche e cittadini, avviene
in guerra, in vacanza, lungo
l’autostrada, al lavoro, in palestra, in parlamento, nei circoli di burraco,
nei complessi rock e al supermercato. La rigidità dei nostri schemi fa comprare
e vendere sempre lo stesso prodotto, rende difficile mettersi nei panni altrui,
quasi impossibile chiedere scusa, ma
soprattutto fa attribuire la colpa dei fallimenti sempre a qualche entità
esterna, processo attraverso il quale si genera la mitologia del nemico,
narrazione mentale che ci induce a credere sempre in un dio cattivo e dio uno
buono, dove il dio cattivo è di volta in volta incarnato in creature
pandemiche, incarnazioni delle nostre paure e delle nostre angosce, che possono
variare la loro forma e sostanza prendendo le vaghe sembianze della crisi, o quelle più definite della Merkel
o quelle più esotiche degli extracomunitari, fino alla faccia del vicino che
mette le mondezze nel posto sbagliato.
Trovare un responsabile di un errore primario, il portatore di una sorta
di peccato originale, ci allevia dall’oscuro pensiero che la maggior parte del
nostro destino e delle nostre azioni dipenda principalmente da noi, coscienza
che obbligherebbe ad un frequente e regolare cambio di idee. Il principale finto mito che l’uomo moderno ha creato,
per sostenere questa sua affezione alla cristallizzazione, è quello di
attribuire alle proprie idee una sorta
di materialità il cui possesso determina
la propria forza, componendo il sillogismo errato per cui il rinunciare
ad un ad una propria certezza comporti un’ammissione di debolezza.
La costruzione del mito nasce
sempre dall’esigenza di fermare nel tempo, strutturare e descrivere in forma
narrativa una serie di eventi che alle volte possono coincidere con l’epopea di
un’intera società come di un solo eroe,
certo è che per sua natura il mito descrive attraverso un linguaggio semplice, ingenuo
come una battaglia tra dei volubili e uomini d’avventura, una realtà
impossibile da interpretare e spesso ricca di dissonanze e di aspetti poco
edificanti. Il mito ha avuto spesso la funzione di esaltare le origini di popoli che erano poco
più che pastori (si pensi all’Eneide), odi dare dignità poetica a guerre
tribali, giocate per lo più a
sassate e clave in testa, per accaparrarsi un fazzoletto di terra (vedi
Iliade), stessa funzione conserva quando, raccontandoci che abbiamo ragione ad
ogni costo, cerchiamo di dare ai nostri
errori una dignità che non hanno e ci erigiamo ad eroi della nostra personale battaglia
persa. Perché accade questo? Perché le persone non sono disposte ad accettare
visioni alternative? Perché cambiare opinione, giudizio, condotta o regole
comporta uno sforzo nettamente maggiore che cambiare macchina, cellulare o
addirittura partner? Probabilmente perché l’uomo è un animale astratto,
composto più del suo pensiero che della sua stessa carne, tanto che attorno
alle idee costruisce tutta la sua identità, senza preoccuparsi se questa possa
essere migliore ma concentrandosi solo sul mantenerla intatta, come se dalla
sua integrità dipendesse la sopravvivenza di sé e della sua intera specie.
In effetti il mito e la sua immortale,
affascinante, prodigiosa menzogna è ciò
che più di ogni altra cosa ha tenuto in vita la leggenda che siamo eterni, tale illusione
in fin dei conti è ciò che ci serve per sopravvivere.
Elena Pascolini