Omnia fert aetas
Il tempo porta via
tutte le cose
(Virgilio)
Chi crede che non si
debba parlare apertamente della morte non legga questo articolo.
Io credo che sia impossibile vivere senza aver
approfondito l’argomento. A parte l’esperienza diretta e personale, non c’è
nessuna istituzione, scuola o gruppo informale dove si possa affrontare il discorso senza
sollevare censure in forma di scaramanzia,
luoghi comuni, retoriche più o meno teosofiche o negazioni metempsicotiche.
Ciò avviene soprattutto nel mondo occidentale, gli altri non si fanno tutti
questi problemi.
Se qualcuno è arrivato
a leggere fin qua ha superato già molte barriere e pregiudizi e lo ringrazio,
ma soprattutto lo tranquillizzo: non ho nessuna intenzione di parlare di morte,
anzi, voglio parlare di immortalità.
L’Occidente ha fondato
la sua incredibile forza culturale e capacità di condizionamento e di omologazione
dei valori su un unico concetto: l’illusione dell’immortalità. L’avvento del
cattolicesimo è stato provvidenziale in un mondo ad un passo dalla decadenza che
non chiedeva nulla di più che convincere
e convincersi che il meglio doveva ancora venire. Da più di un millennio l’Occidente
si fonda su questo unico e illusorio dogma: l’uomo è immortale; il risultato è
che questo messaggio, funzionale alla conservazione dei beni materiali, al
trasferimento del denaro, all’investimento, alla produzione e all’accumulo di
beni, ha vinto su tutto e la maggior parte delle persone pensa, decide, si muove, sceglie, lavora, come
se non dovesse morire mai, dedicando la maggior parte del proprio tempo ad
attività di possesso e salvaguardia di proprietà,
convincendosi che anche i valori privati e intimi siano negoziabili e degni della stessa manutenzione che si dedica
ad un auto.
E’ molto doloroso comprendere che il tempo è poco e che quel poco è
messo per lo più a servizio di un macrosistema che ha poco riguardo per le sue particelle
ma che ha molto interesse a sopravvivere, in quanto composto egli stesso da
persone illuse di essere immortali. Questa è la ragione per cui ci hanno
insegnato che non si deve parlare di morte e che tutto ciò che c’è di veramente
bello e giusto potrà essere fatto a tempo debito: in un futuro infinito, dove finalmente
potremmo dedicarci alle persone care, a giocare con i nostri bambini, a dire
cose belle a chi vogliamo bene, a fare una passeggiata quando c’è il sole, ad
avere tempo per la noia, per gli amici, per i ricordi, per la pazienza, per il
dolore, per la gioia e per la vita in sé.
Se si
potesse parlare liberamente della morte come si parla e straparla di politica,
di calcio e di crisi saremmo tutti più felici e ci godremmo in santa pace la
nostra vita, certi che il tempo perso non è quello che passiamo senza produrre
denaro, ma quello che passiamo senza pensare a tutto ciò che stiamo perdendo
mentre guadagnamo.
E' troppo tardi però per smitizzare questa illusione di
immortalità e cominciare tutti a parlare allegramente di morte: arrivati a
questo punto sarebbe troppo doloroso, sarebbe troppo traumatico comprendere una
volta per tutte che ciò che ogni giorno perdi in nome dell’immortalità del macrosistema
non tornerà mai più e che il paradiso del tempo perduto è drammaticamente vuoto.
Se qualcuno è arrivato
a leggere fino a qua ha dimostrato di avere un po’ di tempo da perdere, ma
soprattutto concorderà con me che è una
pessima cosa parlare di morte e che le poche volte che se ne parla serve solo a
confermare che sono sempre gli altri a morire.
Letture consigliate :
Il libro tibetano del vivere e del morire
Sogyal Rinpoche, Ubaldini Editore, Roma
Come l’uomo inventò la morte
Timothy
Taylor, Newton Compton
http://www.sipuodiremorte.it/
Marina Sozzi
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