Mentre scrivo i giornali e i
telegiornali danno notizia del suicidio di Maurizio Cevenini, stimato esponente
del partito Democratico di Bologna, i commenti più diffusi parlano di
incredulità ma anche di un esteso senso di colpa. La sensazione più frequente
che si prova è quella di non aver capito lo stato d’animo della persona che
compie il gesto, di non aver saputo anticiparlo o in qualche maniera
evitarlo.
Il suicidio di Cevenini è l’ultimo della serie: sembra che ultimamente le persone abbiano ricominciato a uccidersi con una certa
frequenza.[1]
La nostra società attraversa un
tunnel a fari spenti: certezze, tradizioni, abitudini, ruoli e convinzioni
sfumano nella nebbia della paura del futuro, un futuro che è per antonomasia
sconosciuto a tutti noi, ma che le piccole sicurezze quotidiane danno
l’illusione di gestire. Il suicidio
arriva come ulteriore dissesto, sovvertimento del primario ordine stabilito:
quello dell’inviolabilità della vita, quasi a suggerire che anche l’esistenza è
un diritto negato. In effetti il
suicidio non è un gesto contro la vita ma è la necessaria conseguenza dell’inesistenza. E’ possibile non esistere
pur essendo in vita? Assolutamente si. L’
anomia, descritta dal sociologo francese Émile Durkheim è riassumibile
come una condizione di assoluto contrasto tra le proprie aspettative, i propri valori e la vita che in effetti si
conduce. Parliamo di una teoria elaborata in piena rivoluzione industriale,
descrivente un contesto sociale instabile e mutante, pervaso dalla paura di una totale perdita di identità a
favore di un meccanismo schiacciane e autoreferenziale: la “macchina
automatica” del capitalismo. Sempre Durkheim
descrive come antitesi dell’anomia la socializzazione,
la rete relazionale informale che permette agli individui uno scambio
diretto di valori e contenuti, instaurando rapporti solidi di mutuo aiuto e
condivisione. In un panorama socialmente apocalittico come quello della
rivoluzione industriale, si assisteva ad una costante migrazione dai solidi
nuclei delle comunità agricole verso gli insediamenti produttivi e
parallelamente, la crescita del terzo settore, strappava sempre più persone dal
contesto di appartenenza alla ricerca di occupazione nelle grandi città. Il
simbolo della solitudine esistenziale e dell’espropriazione del proprio
mondo erano le “camere in affitto”:
scatole di tempo vuoto per esistenze
invisibili, in attesa di tornare al lavoro.
Potrei
elencare i parallelismi con il nostro presente ma lascio ai lettori questo
facile esercizio.
Lo scambio
fra l’individuo è la società genera valori, le persone elaborano norme che vengono recepite, approvate o
disapprovate e infine codificate da enti superiori, pensiamo alla Chiesa, allo
Stato e alla legislazione: il risultato di tali codifiche torna ai soggetti che
nuovamente elaborano e modificano i messaggi in un continuo dialogo tra
individuo, gruppo sociale, comunità e istituzione. Ciò avveniva prima
dell’avvento del capitalismo, poi il meccanismo s’è inceppato favorendo la
comunicazione unidirezionale e verticale fino ad arrivare ai giorno nostri, dove lo scambio di contenuti in contesti
sociali informali è notevolmente impoverito
(compici anche i Social Network che ci
illudono di avere molti più amici di quelli che realmente abbiamo) e dove la
maggior parte delle persone non produce più sistemi di valori autonomi ma subisce e fa propri quelli che provengono
dall’alto. Il risultato è una deriva costante verso un’inconsapevole anomia che
diviene manifesta, e spesso inaccettabile, nel momento in cui l’organismo
superiore, che impone i valori, diviene instabile: l’individuo, che nel
frattempo ha costruito la propria identità e le proprie aspettative adeguandosi
inconsapevolmente a norme estranee a sè, diventa improvvisamente cosciente di questo
processo e la dissonanza tra ciò che si è realmente e ciò che “il mondo” ha
preteso che tu sia, è talmente dolorosa e inaccettabile al punto di preferirne la morte.
Il suicidio
è una forma di riappropriazione estrema dell’esistenza, un messaggio con un
preciso scopo, quello di riaffermare un potere sulla propria vita. Il suicidio
è una lettera senza mittente che, in poche parole, riassume tutto ciò che
sappiamo ma che non vogliamo vedere: siamo troppo soli, troppo distanti, troppo
distratti. Il senso di colpa o di rabbia che lascia è l’impossibilità di
rispondere.
11 aprile 2012
Elena Pascolini
[1] Per
avere un rapporto statistico oggettivo i dati vanno raccolti in un arco di
tempo relativamente vasto, minimo un anno. Risulta ancora prematuro affermare
che nel 2012 ci sia stato un effettivo aumento dei suicidi anche se,
all’apparenza, la tendenza attuale porterebbe a confermare questa direzione.
2 commenti:
complimenti per l'esattezza della riflessione (esatto da esigere, c'è esigenza di una riflessione esatta sui suicidi, ma nessuno tenta mai di farla)
da grandissimo esperto di cose che non so, mi permetto di chiosare con 2 osservazioni:
-spesso i giornali amano abbinare suicidio e crisi, sentenziando già, in un rapporto effetto-causa, (che esiste solo nelle loro redazioni tarate) che il primo è dovuto al secondo. come se tutta la vita ruotasse attorno al conto corrente e nulla fosse al di fuori di quello.
ora sicuro una crisi violenta può causare un suicidio, ma io direi piuttosto una crisi affettiva.
l'anomia di cui parli se ha prodotto qualcosa è una gigantesca anaffettività.
basta osservare le strade. pochissime persone si baciano quando si salutano o se lo fanno, lo fanno con un ghigno schifito. nessuno si vede mai piangere, cosa che potrebbe succedere sia per sfogo da tristezza, che sarebbe più che umano e normale, sia per gioia (l'esistenza di tale fatto è ritenuta per lo più inconcepibile e come leggendaria).
Gli altri (quindi noi) sembrano tanti robot appunto anonimi. e spesso più entriamo in contatto loro e più ci accorgiamo che il loro anonimato è tangibile e quasi marmoreo.
quindi uno torna a casa, riflette sui propri problemi, si accorge di avere, invece che un amore, un coniuge di plastica e giustamente si tira giù dal balcone.
-il suicidio è la più grande offesa che si possa fare al prossimo e ai parenti
una seconda cosa, oltre all'anaffettività, mi meraviglia:
la banalità e quanto grande sia il numero delle persone che la amano, la stimano, la cercano e ne perseverano.
la bellezza nella vita è tutta nei dettagli, nelle loro pieghe segrete.
ma occorre attenzione per distinguere e discernere. e l'attenzione costa evidentemente troppa fatica. forse dev'essere la più grande di tutte se in così pochi vi si impegnano.
e allora via con la pigrizia della banalità e dello scontato.
che poi uccide tutto quello che tocca, ma non importa, è un fattore secondario
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