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La Societologia è la scienza dei luoghi comuni, nasce infatti nelle piazze, nei bar, nelle sale d'aspetto, nei social network e in tutti i luoghi dove le relazioni umane intessono la loro collettiva e mutevole visione del mondo.

lacquacalda è un'osservatorio sulla salute sociale, tasta solo il polso, non prescrive medicine, non fa diagnosi, per cui è anch'esso sintomo di un male sociale: quello di voler parlare ad ogni costo anche quando non si ha nulla da dire.

Sull’avere ragione ad ogni costo, ovvero crepi l’evidenza


Cosa ci piacerebbe cambiare di noi stessi, della nostra vita, del nostro mondo?
Chissà quante volte ci siamo fatti questa domanda  e chissà quanti desideri abbiamo formulato già consapevoli di anelare a mete irrealizzabili, di volta in volta osteggiati dalla natura, dal destino, dal governo, dal vicino di casa, dal figlio, dalla suocera, dalla moglie, finanche dal cane che ci siamo regalati in uno slancio verso l’innovazione estrema.
Bene, riformuliamo la domanda:  quali sono le cose che potremmo cambiare a partire dalla semplice volontà di farlo? La lista si asciuga e le palme in riva al mare assumono i tristi contorni della pianta di basilico che tutti gli anni ci proponiamo di  coltivare e che tutti gli anni muore di sete o viene mangiata dal cane innovatore.  Notiamo al dunque che, una volta censurati  gli alibi, la nostra volontà di cambiamento è veramente  esigua rispetto alle esigenze. Se così non fosse la maggior parte delle persone non incontrerebbe difficoltà a smettere di fumare, a dimagrire, a imparare cose nuove, ad ascoltare di più i  figli, ad arrabbiarsi di meno per cose futili, a non rattristarsi per cose inesistenti, a far germogliare e prosperare la propria pianta di basilico.
 Cosa impedisce alle persone di cambiare anche le più nocive e detestabili abitudini? Perché si arriva a dare spiegazioni fantascientifiche pur di non ammettere che la maggior parte dei cambiamenti dipende esclusivamente dalla propria volontà? La prima risposta che mi viene in mente è che affermare l’esistenza di un coinvolgimento  personale nel processo di cambiamento  condannerebbe  un'altra abitudine a cui siamo particolarmente affezionati: il lamento.
 L’altra risposta è da ricercarsi, molto probabilmente, sul funzionamento del  nostro cervello  e sulla sua evoluzione in direzione della selezione delle informazioni e del rinforzo di comportamenti che si mettono più frequentemente in atto. Il cervello, come ogni altro organo del nostro corpo, se non è volontariamente sollecitato tende a lavorare in regime di economia e a favorire connessioni e processi abitudinari, il paradosso è che spesso questi non generano conseguenze economiche ma una serie di errori che vengono censurati, esclusi o non interpretati come tali per non far cambiare strada ai nostri metodici neurotrasmettitori. Facciamo un esempio molto frequente:  tutti i giorni percorriamo lo stesso tragitto con la macchina per arrivare dal punto A al punto C, il giorno che dobbiamo arrivare dal punto A al punto B ci ritroveremo inspiegabilmente al punto C;  chiaramente  il nostro cervello economico,  in questo caso, non ci fa  risparmiare sulla benzina. Stessa cosa vale per tutte le volte che ci ostiniamo a pensare alla stessa maniera nonostante l’evidenza sia totalmente a nostro sfavore. Spesso ammettere un torto significa rivedere completamente la nostra mappa di certezze, strettamente intrecciate ed edificate l’una sull’altra, dove spesso alle fondamenta c’è già il primo mattone sbagliato. Accettare un proprio errore implica una serie di revisioni e di sforzi cognitivi ai quali non siamo assolutamente né preparati né abituati e paradossalmente è più semplice costruire una teoria bislacca, che tenga in piedi il nostro castello di certezze mal edificate, che buttarlo giù e ricostruirlo da capo. I social network sono terreno privilegiato alla condivisione di significati e notizie e come tali rispecchiano in pieno  sia  i meccanismi collettivi che i processi individuali: il caso della notizia bufala è significativo: il soggetto X condivide una notizia che ha per lui una valenza simbolica coerente e confermante il suo pensiero, un altro soggetto Y interviene e smentisce la notizia attraverso una fonte accreditata, il soggetto X smentisce la fonte accreditata o dichiara che anche se non è vera è verosimile e che è il contenuto è ugualmente  valido e la fonte non ha alcuna importanza  (il che equivale ad asserire  che la notizia esiste non come tale ma  per il solo fatto di confermare quello che io  penso e desidero sia vero).

  Credo vi sia capitato in periodo elettorale di assistere a  un dialogo del genere:
X : voto tizio perché è onesto
Y:  è venuto fuori che tizio non è onesto
X: gli altri sono tutti disonesti e alla fine è comunque il più onesto
Y: allora non dire che lo voti perché è onesto
X: io  lo voto e quindi è onesto

Tutto questo papocchio di finte certezze origina da ciò che viene definita dissonanza cognitiva[1], ossia la discrepanza tra l’idea che ci siamo costruiti di noi stessi e del mondo e le informazioni in conflitto con la nostra necessità di  coerenza: tali informazioni spesso hanno la peggio rispetto alla resistenza al cambiamento e vengono semplicemente eliminate, censurate, ignorate o trasformate. 


In questo periodo non si fa altro che parlare di cambiamento, si attende una rivoluzione che parta dal basso, dalla gente, dai cittadini, si inneggia al nuovo e si spera  in una radicale trasformazione della società, della classe politica e della nazione  e tutto questo sa veramente di avveniristico, riempie di speranze per un futuro diverso da questo presente lacero e depresso, lasciato a seccare sul balcone e infine divorato dall’annoiato cane di  generazioni di  indefessi,  metodici,  coltivatori di  abitudini.
Largo al cambiamento dunque! Sempre che non parta da noi.
Elena Pascolini



[1] Da “Teoria della Dissonanza Cognitiva” di Leon Festinger  ed. Franco Angeli 2001