Cosa ci piacerebbe
cambiare di noi stessi, della nostra vita, del nostro mondo?
Chissà quante volte ci
siamo fatti questa domanda e chissà
quanti desideri abbiamo formulato già consapevoli di anelare a mete
irrealizzabili, di volta in volta osteggiati dalla natura, dal destino,
dal governo, dal vicino di casa, dal figlio, dalla suocera, dalla moglie,
finanche dal cane che ci siamo regalati in uno slancio verso l’innovazione
estrema.
Bene, riformuliamo la domanda: quali sono le cose che potremmo cambiare a partire dalla semplice volontà di farlo? La lista si asciuga e le palme in riva al mare assumono i tristi contorni della pianta di basilico che tutti gli anni ci proponiamo di coltivare e che tutti gli anni muore di sete o viene mangiata dal cane innovatore. Notiamo al dunque che, una volta censurati gli alibi, la nostra volontà di cambiamento è veramente esigua rispetto alle esigenze. Se così non fosse la maggior parte delle persone non incontrerebbe difficoltà a smettere di fumare, a dimagrire, a imparare cose nuove, ad ascoltare di più i figli, ad arrabbiarsi di meno per cose futili, a non rattristarsi per cose inesistenti, a far germogliare e prosperare la propria pianta di basilico.
Bene, riformuliamo la domanda: quali sono le cose che potremmo cambiare a partire dalla semplice volontà di farlo? La lista si asciuga e le palme in riva al mare assumono i tristi contorni della pianta di basilico che tutti gli anni ci proponiamo di coltivare e che tutti gli anni muore di sete o viene mangiata dal cane innovatore. Notiamo al dunque che, una volta censurati gli alibi, la nostra volontà di cambiamento è veramente esigua rispetto alle esigenze. Se così non fosse la maggior parte delle persone non incontrerebbe difficoltà a smettere di fumare, a dimagrire, a imparare cose nuove, ad ascoltare di più i figli, ad arrabbiarsi di meno per cose futili, a non rattristarsi per cose inesistenti, a far germogliare e prosperare la propria pianta di basilico.
Cosa impedisce alle persone di cambiare anche
le più nocive e detestabili abitudini? Perché si arriva a dare spiegazioni
fantascientifiche pur di non ammettere che la maggior parte dei cambiamenti
dipende esclusivamente dalla propria volontà? La prima risposta che mi viene in
mente è che affermare l’esistenza di un coinvolgimento personale nel processo di cambiamento condannerebbe un'altra abitudine a cui siamo particolarmente
affezionati: il lamento.
L’altra risposta è da ricercarsi, molto
probabilmente, sul funzionamento del
nostro cervello e sulla sua
evoluzione in direzione della selezione delle informazioni e del rinforzo di
comportamenti che si mettono più frequentemente in atto. Il cervello, come ogni
altro organo del nostro corpo, se non è volontariamente sollecitato tende a
lavorare in regime di economia e a favorire connessioni e processi abitudinari,
il paradosso è che spesso questi non generano conseguenze economiche ma una
serie di errori che vengono censurati, esclusi o non interpretati come tali per
non far cambiare strada ai nostri metodici neurotrasmettitori. Facciamo un
esempio molto frequente: tutti i giorni
percorriamo lo stesso tragitto con la macchina per arrivare dal punto A al
punto C, il giorno che dobbiamo arrivare dal punto A al punto B ci ritroveremo
inspiegabilmente al punto C; chiaramente il nostro cervello economico, in questo caso, non ci fa
risparmiare sulla benzina. Stessa cosa vale per tutte le volte che ci
ostiniamo a pensare alla stessa maniera nonostante l’evidenza sia totalmente a
nostro sfavore. Spesso ammettere un torto significa rivedere completamente la
nostra mappa di certezze, strettamente intrecciate ed edificate l’una
sull’altra, dove spesso alle fondamenta c’è già il primo mattone sbagliato.
Accettare un proprio errore implica una serie di revisioni e di sforzi
cognitivi ai quali non siamo assolutamente né preparati né abituati e
paradossalmente è più semplice costruire una teoria bislacca, che tenga in
piedi il nostro castello di certezze mal edificate, che buttarlo giù e
ricostruirlo da capo. I social network sono terreno privilegiato alla
condivisione di significati e notizie e come tali rispecchiano in pieno sia i
meccanismi collettivi che i processi individuali: il caso della notizia bufala
è significativo: il soggetto X condivide una notizia che ha per lui una valenza
simbolica coerente e confermante il suo pensiero, un altro soggetto Y interviene
e smentisce la notizia attraverso una fonte accreditata, il soggetto X
smentisce la fonte accreditata o dichiara che anche se non è vera è verosimile
e che è il contenuto è ugualmente valido e la fonte non ha alcuna importanza (il che equivale ad asserire che la notizia esiste non come tale ma per il solo fatto di confermare quello che
io penso e desidero sia vero).
Credo vi sia capitato in periodo elettorale
di assistere a un dialogo del genere:
X : voto tizio perché è onesto
Y: è venuto
fuori che tizio non è onesto
X: gli altri sono tutti
disonesti e alla fine è comunque il più onesto
Y: allora non dire che lo voti perché è onesto
X: io lo voto e quindi è onesto
Tutto questo papocchio di
finte certezze origina da ciò che viene definita dissonanza cognitiva[1],
ossia la discrepanza tra l’idea che ci siamo costruiti di noi stessi e del
mondo e le informazioni in conflitto con la nostra necessità di coerenza: tali informazioni spesso hanno la
peggio rispetto alla resistenza al cambiamento e vengono semplicemente
eliminate, censurate, ignorate o trasformate.
In questo periodo non si fa altro che parlare di cambiamento, si attende una rivoluzione che parta dal basso, dalla gente, dai cittadini, si inneggia al nuovo e si spera in una radicale trasformazione della società, della classe politica e della nazione e tutto questo sa veramente di avveniristico, riempie di speranze per un futuro diverso da questo presente lacero e depresso, lasciato a seccare sul balcone e infine divorato dall’annoiato cane di generazioni di indefessi, metodici, coltivatori di abitudini.
Largo al cambiamento
dunque! Sempre che non parta da noi.
Elena Pascolini
1 commento:
Non ho capito.
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