Più lontani si va e meno ci si avvicina
alla verità.
Per questo l'uomo saggio pur restando
fermo arriva.
Lao Tzu
Maggiore è
la distanza da un oggetto e minore è la nostra capacità di coglierne dettagli e
qualità. Quando guadiamo un cielo pieno di stelle, in effetti, stiamo osservando
una moltitudine di corpi astrali del tutto differenti tra loro per natura,
dimensioni, composizione, origine e distanza ma queste sono considerazioni da
astronomi, a noi basta avvistare una stella cadente ed esprimere un desiderio,
probabilmente sempre lo stesso da vent’anni.
Alle volte può capitare che
un astronomo abbia scelto di fare le
vacanze nel nostro stesso albergo e si piazzi nella sdraia di fianco alla nostra
a rimirare lo stesso firmamento e ad erudirci su sciami meteoritici, sul limite di
Eddington o sull’instabilità di Jeans. A questo punto avremmo un nuovo
desiderio da confidare alla stella cadente: che l’astronomo venga ricacciato negli abissi della sua scienza dai
quali è emerso solo per venire a rovinare uno dei pochi istanti di poesia della
nostra vita.
Eppure sta
dicendo il vero, vede ciò che noi non
vediamo e coglie un’infinità di aspetti a
noi invisibili che conferiscono ai corpi celesti caratteri, sfumature,
composizioni, essenze e origini del tutto diverse ed esclusive. E’ come se, di quell’insieme, lui
conoscesse i singoli individui che lo compongono, come se di fronte alla curva dell’opposta
tifoseria di un derby distinguessimo uno
per uno i nostri avversari: curva nord, gradinata 2 posto 35, è Stefano
Giannetti, ha 31 anni, si è lasciato con la fidanzata la settimana scorsa, dice
che non gliene importa invece soffre molto, è venuto allo stadio con suo cugino
Francesco Giorgi, una persona molto sensibile che pur non affrontando
direttamente l’argomento, ha pensato che gli avrebbe fatto bene uscire a vedere
la partita... ecco, Stefano si è alzato in piedi, sta gridando che quello era
fallo, è arrabbiatissimo, si sta sfogando, finalmente... e così per ogni
gradinata: nomi, cognomi, storia, sentimenti, emozioni di ognuno. Sono tifosi
dell’altra squadra ma ora li conosciamo,
non sono più nemici, li capiamo, alcuni
ci somigliano, con altri potremmo diventare grandi amici, sappiamo anche perché
hanno scelto di tifare il rosso anziché il blu.
E’ ovviamente impossibile che
si verifichi una cosa del genere, come è impossibile dare un nome, un cognome,
una storia, dei sentimenti, sogni, ambizioni, delusioni, amori finiti, ferite
profonde, padri, madri, amici e figli ad
ogni venditore di rose, ad ogni vucumprà che rompe in spiaggia, ad ogni faccia
scura, capello ruffo e corpo lercio che sbarca da un canotto: per noi sono una
massa di estranei, uguali e misteriosi che, come le formiche, vengono ad invadere le nostre
credenze casalinghe, i nostri barattoli di zucchero.
Anche noi,
che prendiamo le distanze e che usiamo la distanza per non invischiarci nella
pelle altrui, siamo a nostra volta i
distanti di qualcun altro e perdiamo la nostra originalissima identità,
storia , biografia, per diventare una categoria: siamo i lavoratori dipendenti,
siamo i dirigenti, siamo i disoccupati, siamo i precari, siamo gli esodati,
siamo i pensionati, siamo i consumatori, siamo le donne, pronti a passare da
una tipologia all’altra a seconda di chi sia l’osservatore che ha necessità di
prendere le distanze da noi e da ciò che rappresentiamo.
In chiave
antropologica tutto ciò che ho appena descritto altro non è che una necessaria
semplificazione nata dall’ esigenza delle prime società organizzate di definire i confini fra in-group e out-group,
nei fatti si può tradurre in atteggiamenti tra cui il razzismo, l’omofobia, le
discriminazioni di genere e l’intolleranza verso categorie sociali percepite
come pericolose.
La negazione dell’identità individuale porta ad appiattire la
personalità fino al punto di convincersi che quella particolare categoria umana
non è dotata degli stessi sentimenti e delle stesse emozioni che ci contraddistinguono,
tanto che è possibile abusare e violentare senza particolari rimorsi, gettare
un’atomica su una città senza pensare all’ultimo sguardo di un bambino, mitragliare
a tappeto sicuri di eliminare esclusivamente “nemici cattivi”, realizzare uno sterminio scientifico e organizzato come quello di un campo di concentramento, freddo come la strage
di formiche che ci prepariamo a compiere armati di bomboletta raid, facile da
nascondere con un colpo di ramazza.
Nel piccolo, nel quotidiano, nel lavoro, tutto
ciò si traduce nell’incapacità di cogliere l’originale umanità di ogni individuo che partecipa all’azienda, l’idea che sia possibile sostituire le persone con
la stessa facilità con cui cambiamo l’olio al fritto, l’ignorare che l’imposizione
di mutamenti drastici si ripercuote
sulla vita privata di un lavoratore e che la vita privata di un lavoratore si
ripercuote sulla prestazione,
negare che il benessere si fonda soprattutto su una percezione positiva di sé e sul riconoscimento del proprio valore personale e
delle proprie attitudini, affermare che la bontà di un operato sia
quantificabile solo in termini di
obbiettivi raggiunti, attuando un sistema di incentivo basato principalmente
sulla pressione e sull’idea che il personale non è “persona”, tanto quanto non
lo è il cliente.
Purtroppo tali situazioni sono sintomo della
decadenza della cultura aziendale, il cui vuoto da luogo ad aberrazioni comportamentali e a criteri
acefali e cristallizzati, spesso applicati in modo meccanico e inconsapevole, che
originano principalmente dalla
disumanizzazione del lavoro e dalla distanza ed estraneità delle parti
del sistema.
La cultura
aziendale è il carattere, la filosofia,
lo spirito e l’impronta che distingue un’organizzazione da un’altra, determina
il clima, i rapporti con il territorio e
con la concorrenza, definisce l’eredità
e la continuità con il passato e le linee d’azione utili a garantire il futuro,
rende l’azienda riconoscibile, conferendole identità e personalità, influenzando
la sensazione di appartenenza dei lavoratori e il rapporto di fiducia con la
clientela.
Le pressioni psicologiche si
collocano all’interno di un processo di deriva della cultura aziendale dovuta
ad un’ avaria alla quale partecipa un intero sistema di valori. Il risultato è
che un’azienda che perde la propria identità, che trascende la propria cultura,
non è in grado né di riconoscere l’identità altrui né di generare cultura. Le
cause di tale processo sono molte e quasi sempre relative all’incapacità di far
fronte ad una crisi o ad una instabilità dell’ambiente per cui l’organizzazione
innesca meccanismi di difesa che puntano alla soluzione di un’ emergenza, senza
pensare ad una sopravvivenza nel lungo periodo, entrando paradossalmente in una
fase di autocannibalismo dove, in un clima di panico, tra tutte le soluzione si
sceglie la più irrazionale, quella che penalizza gli stessi elementi dai quali
dipende l’intero sistema: il cliente e il dipendente.
La situazione è simile a
quella di un allevatore che vede sopravvivere ad un’ epidemia una sola vacca e
per paura di morire di fame la uccide per mangiarla, restando senza vacche,
senza latte e senza futuri vitelli.
Il nostro
amico astronomo non verrà in vacanza con noi la prossima estate, dice che si
annoia a guardare le stelle che cadono perché lui sa che una meteorite non ha
mai avverato il sogno di nessuno, lui le chiama per nome le sue meteoriti e
alle volte si preoccupa anche che cadano troppo vicine alla sua sdraio.
Elena
Pascolini
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