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La Societologia è la scienza dei luoghi comuni, nasce infatti nelle piazze, nei bar, nelle sale d'aspetto, nei social network e in tutti i luoghi dove le relazioni umane intessono la loro collettiva e mutevole visione del mondo.

lacquacalda è un'osservatorio sulla salute sociale, tasta solo il polso, non prescrive medicine, non fa diagnosi, per cui è anch'esso sintomo di un male sociale: quello di voler parlare ad ogni costo anche quando non si ha nulla da dire.

Un astronomo in azienda




Più lontani si va e meno ci si avvicina alla verità.
Per questo l'uomo saggio pur restando fermo  arriva.
Lao Tzu

Maggiore è la distanza da un oggetto e minore è la nostra capacità di coglierne dettagli e qualità. Quando guadiamo un cielo pieno di stelle, in effetti, stiamo osservando una moltitudine di corpi astrali del tutto differenti tra loro per natura, dimensioni, composizione, origine e distanza ma queste sono considerazioni da astronomi, a noi basta avvistare una stella  cadente ed esprimere un desiderio, probabilmente sempre lo stesso da vent’anni.
Alle volte può capitare che un  astronomo abbia scelto di fare le vacanze nel nostro stesso albergo e si piazzi nella sdraia di fianco alla nostra a rimirare lo stesso firmamento e ad erudirci su  sciami meteoritici, sul  limite di Eddington o sull’instabilità di Jeans. A questo punto avremmo un nuovo desiderio da confidare alla stella cadente:  che l’astronomo venga  ricacciato negli abissi della sua scienza dai quali è emerso solo per venire a rovinare uno dei pochi istanti di poesia della nostra vita. 
Eppure sta dicendo il vero, vede ciò che noi  non vediamo e coglie un’infinità di aspetti  a noi invisibili che conferiscono ai corpi celesti caratteri, sfumature, composizioni, essenze e origini del tutto diverse ed  esclusive. E’ come se, di quell’insieme, lui conoscesse i singoli individui che lo compongono,  come se di fronte alla curva dell’opposta tifoseria di un derby  distinguessimo uno per uno i nostri avversari: curva nord, gradinata 2 posto 35, è Stefano Giannetti, ha 31 anni, si è lasciato con la fidanzata la settimana scorsa, dice che non gliene importa invece soffre molto, è venuto allo stadio con suo cugino Francesco Giorgi, una persona molto sensibile che pur non affrontando direttamente l’argomento, ha pensato che gli avrebbe fatto bene uscire a vedere la partita... ecco, Stefano si è alzato in piedi, sta gridando che quello era fallo, è arrabbiatissimo, si sta sfogando, finalmente... e così per ogni gradinata: nomi, cognomi, storia, sentimenti, emozioni di ognuno. Sono tifosi dell’altra squadra ma ora  li conosciamo, non sono più nemici,  li capiamo, alcuni ci somigliano, con altri potremmo diventare grandi amici, sappiamo anche perché hanno scelto di tifare il rosso anziché il blu.
 E’ ovviamente impossibile che si verifichi una cosa del genere, come è impossibile dare un nome, un cognome, una storia, dei sentimenti, sogni, ambizioni, delusioni, amori finiti, ferite profonde, padri,  madri, amici e figli ad ogni venditore di rose, ad ogni vucumprà che rompe in spiaggia, ad ogni faccia scura, capello ruffo e corpo lercio che sbarca da un canotto: per noi sono una massa di estranei, uguali e misteriosi che,  come le formiche, vengono ad invadere le nostre credenze casalinghe, i nostri barattoli di zucchero.
 Anche noi, che prendiamo le distanze e che usiamo la distanza per non invischiarci nella pelle altrui, siamo a nostra volta i distanti di qualcun altro e perdiamo la nostra originalissima identità, storia , biografia, per diventare una categoria: siamo i lavoratori dipendenti, siamo i dirigenti, siamo i disoccupati, siamo i precari, siamo gli esodati, siamo i pensionati, siamo i consumatori, siamo le donne, pronti a passare da una tipologia all’altra a seconda di chi sia l’osservatore che ha necessità di prendere le distanze da noi e da ciò che rappresentiamo.
 In chiave antropologica tutto ciò che ho appena descritto altro non è che una necessaria semplificazione nata dall’ esigenza delle prime società organizzate  di definire i confini fra in-group e out-group, nei fatti si può tradurre in atteggiamenti tra cui il razzismo, l’omofobia, le discriminazioni di genere e l’intolleranza verso categorie sociali percepite come pericolose. 
 La negazione dell’identità individuale porta ad appiattire la personalità fino al punto di convincersi che quella particolare categoria umana non è dotata degli stessi sentimenti e delle stesse emozioni che ci contraddistinguono, tanto che è possibile abusare e violentare senza particolari rimorsi, gettare un’atomica su una città senza pensare all’ultimo sguardo di un bambino, mitragliare a tappeto sicuri di eliminare esclusivamente “nemici cattivi”, realizzare  uno sterminio scientifico e organizzato  come quello di un  campo di concentramento, freddo come la strage di formiche che ci prepariamo a compiere armati di bomboletta raid, facile da nascondere con un colpo di ramazza.
 Nel piccolo, nel quotidiano, nel lavoro, tutto ciò si traduce nell’incapacità di cogliere l’originale umanità di ogni individuo che partecipa all’azienda, l’idea che sia possibile sostituire le persone con la stessa facilità con cui cambiamo l’olio al fritto, l’ignorare che l’imposizione di mutamenti drastici  si ripercuote sulla vita privata di un lavoratore e che la vita privata di un lavoratore si ripercuote  sulla  prestazione,  negare che il benessere si fonda soprattutto su  una percezione positiva di sé e sul  riconoscimento del proprio valore personale e delle proprie attitudini, affermare che la bontà di un operato sia quantificabile solo in  termini di obbiettivi raggiunti, attuando un sistema di incentivo basato principalmente sulla pressione e sull’idea che il personale non è “persona”, tanto quanto non lo è il cliente.
 Purtroppo tali situazioni sono sintomo della decadenza della cultura aziendale, il cui vuoto da luogo ad  aberrazioni comportamentali e a criteri acefali e cristallizzati, spesso applicati in modo meccanico e inconsapevole, che originano principalmente dalla  disumanizzazione del lavoro e dalla distanza ed estraneità delle parti del sistema.
La cultura aziendale è il  carattere, la filosofia, lo spirito e l’impronta che distingue un’organizzazione da un’altra, determina il clima, i rapporti con il  territorio e con la concorrenza,  definisce l’eredità e la continuità con il passato e le linee d’azione utili a garantire il futuro, rende l’azienda riconoscibile, conferendole identità e personalità, influenzando la sensazione di appartenenza dei lavoratori e il rapporto di fiducia con la clientela.
 Le pressioni psicologiche si collocano all’interno di un processo di deriva della cultura aziendale dovuta ad un’ avaria alla quale partecipa un intero sistema di valori. Il risultato è che un’azienda che perde la propria identità, che trascende la propria cultura, non è in grado né di riconoscere l’identità altrui né di generare cultura. Le cause di tale processo sono molte e quasi sempre relative all’incapacità di far fronte ad una crisi o ad una instabilità dell’ambiente per cui l’organizzazione innesca meccanismi di difesa che puntano alla soluzione di un’ emergenza, senza pensare ad una sopravvivenza nel lungo periodo, entrando paradossalmente in una fase di autocannibalismo dove, in un clima di panico, tra tutte le soluzione si sceglie la più irrazionale, quella che penalizza gli stessi elementi dai quali dipende l’intero sistema: il cliente e il dipendente.
 La situazione è simile a quella di un allevatore che vede sopravvivere ad un’ epidemia una sola vacca e per paura di morire di fame la uccide per mangiarla, restando senza vacche, senza latte e senza futuri vitelli.

Il nostro amico astronomo non verrà in vacanza con noi la prossima estate, dice che si annoia a guardare le stelle che cadono perché lui sa che una meteorite non ha mai avverato il sogno di nessuno, lui le chiama per nome le sue meteoriti e alle volte si preoccupa anche che cadano troppo vicine alla sua sdraio.

Elena Pascolini

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