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La Societologia è la scienza dei luoghi comuni, nasce infatti nelle piazze, nei bar, nelle sale d'aspetto, nei social network e in tutti i luoghi dove le relazioni umane intessono la loro collettiva e mutevole visione del mondo.

lacquacalda è un'osservatorio sulla salute sociale, tasta solo il polso, non prescrive medicine, non fa diagnosi, per cui è anch'esso sintomo di un male sociale: quello di voler parlare ad ogni costo anche quando non si ha nulla da dire.

Donne e tabù

Non dalla ricchezza nasce la virtù,
 ma dalla virtù deriva ogni ricchezza e ogni bene,
 sia per l'individuo che  per gli stati.
 (Platone)

Perché nessuno si preoccupa di togliere gli anelli dal collo delle donne giraffa Kayan?
Mi riferisco a quelle tribù di origina birmane che trovano attraente deformare il collo  delle bambine tramite un’impalcatura di anelli, che se in età adulta dovesse essere tolta, causerebbe la morte dei soggetti a causa dell’impossibilità delle vertebre di sostenere la testa,  con conseguente uscita di midollo osseo dalla colonna cervicale:  abbastanza raccapricciate per essere solo una pratica estetica.
In effetti il mondo umano non marcia alla stessa velocità e soprattutto non condivide gli stessi valori e principi; solo alcuni, probabilmente strettamente legati alla sopravvivenza, risultano universali, mentre molti altri sono assolutamente tipici e peculiari di alcune civiltà: questa è la principale ragione per cui si parla di Occidente , Mondo AraboOriente e un vago Terzo Mondo costellato di tribù primitive e società che arrancano per conquistare un po’ di benessere, spesso a stampo occidentale.
La cultura è l’insieme degli strumenti astratti e concreti attraverso i quali le civiltà controllano, spiegano, e normano il loro mondo: una sorta di bussola e nave che indirizza e muove le azioni di individui che si riconoscono all’interno di una stessa  rotta.  Tali strumenti originano da numerosi fattori, molti dei quali riguardano regole che servivano soprattutto all’igiene, alla salute, al controllo del territorio, dei beni e degli individui: circondare il collo dei bambini con anelli di ferro difendeva dall’aggressione di belve e aumentava la possibilità di sopravvivenza, nel tempo si perde la memoria della funzione e rimane l’aspetto tradizionale che diviene distintivo di un popolo e dei suoi criteri di giudizio.
La cultura, oltre che un’ origine, un contenuto, una funzione e un modello di appartenenza ha anche una “velocità”  che è proporzionale allo sviluppo tecnologico ed economico e alla permeabilità e contaminazione con altre culture che risultano dominanti; la dominanza è data quasi sempre da un maggior potere in termini di capacità di sottomissione degli altri: significa che non vince la cultura “migliore” ma quella che riesce ad imporsi meglio, spesso attraverso la forza, la guerra, la dominazione e l’addomesticamento, un classico esempio è quello delle tribù autoctone e tendenzialmente pacifiche, ridotte in schiavitù, sterminate e infine conservate in riserve da invasori che, alle volte, avevano modi molto più barbari e primitivi. Non fosse stato per le armi ed il numero, la cultura dominante sarebbe stata quella che si era evoluta in accordo con il territorio e le sue risorse.
Altra faccenda che divide gli antropologi è l’esigenza, per lo più da parte della cultura dominante, di “conservare” i rimasugli dei popoli che hanno in parte devastato, spesso, paradossalmente contro la volontà stessa dalla minoranza, che aspirerebbe ad acquisire usi, costumi e benessere degli invasori e non essere da questi costretta cibarsi di bacche, cacciare con primitive asce e ad abitare  capanne di fango, quando a pochi chilometri da loro vivono persone con la macchina e la tv satellitare.
Questo è il motivo per cui nessuno mette bocca sulle donne giraffa Kayan:  perché  l’aspetto folcloristico, la curiosità e la pretesa di conservazione di usi e costumi primitivi, al fine documentaristico e di salvaguardia, è per noi più importante dell’ imposizione di valori etici e  morali  a difesa del diritto e della salute dei singoli soggetti. E’ anche tragicamente vero che sollecitare la marcia culturale di popoli che vivono in altri contesti, alle volte, genera ibridi che risultano addirittura disfunzionali e disadattavi rispetto alle condizioni di vita.
Noi Italiani, che abitiamo un territorio già in origine spaccato in quanto a usi e costumi, abbiamo subìto nell’immediato dopoguerra, una violenta accelerazione del progresso e della ricchezza procapite, a cui non ha fatto seguito una naturale evoluzione degli usi e dei costumi, anzi, da un certo punto in poi si è resa necessaria una battuta d’arresto che ha abbassato la qualità del sapere, per uniformarlo ad una popolazione che non ha fatto di necessità anche virtù. Manchiamo di un indirizzo etico e morale condiviso, ci spacchiamo di fronte a questioni quali le discriminazioni di genere, arrivando a paradossi di inciviltà arcaica tali da negare che il fenomeno esista e sia allarmante, così come deleghiamo alle stesse donne la difesa dei loro diritti, accentuando ancora di più stereotipi e differenze di genere. Le donne non devono scendere in piazza contro il femminicidio, contro le violenze private e pubbliche, contro le disparità sul posto di lavoro, contro la violazione dei diritti più banali e scontati che un essere umano occidentale deve possedere, non è una cosa che devono risolvere le donne il fatto che altre donne vengono ammazzate per futili motivi: è un fatto di civiltà, è un fatto che riguarda tutti e che deve scandalizzare e muovere le coscienze, soprattutto degli uomini.
In effetti dovrebbero essere gli uomini della tribù dei Kayan a non trovare più attraenti le donne con il collo lungo per permettere alle stesse di liberarsi dal collare, così come dovrebbero essere gli uomini che detengono il potere negli ambienti di lavoro a non commettere abusi o discriminazioni di sorta, sempre gli uomini dovrebbero essere coloro che tutelano, difendono e proteggono la maternità in quanto bene comune, in quanto loro stesso bene, in quanto loro stessa origine; le donne dovrebbero invece avere il tempo di educare i loro figli, fin dalla nascita, al rispetto e alle buone maniere,  intese come quelle norme di comportamento condivise che guidano le azioni di un popolo e determinano in modo decisivo cosa è giusto e cosa è sbagliato, con il risultato che, chi  devia, è punito, non solo dalla legge, ma da una gogna sociale che non perdona, riconducendo alcune azioni al concetto di tabù, inteso come gesto, idea, azione inammissibile e proibita sia dal profondo dell’anima dell’individuo che da un sentire comune.  Ciò a cui assistiamo è invece un processo inverso, in cui si tenta di cambiare la cultura attraverso la  persuasione e la divulgazione, suscitando inconsapevolmente l’idea che sia possibile aderire o meno a un movimento, protesta o ideologia, o arrivando all’assurdo di fomentare differenze e antagonismi inesistenti, fino al terribile fenomeno dell’emulazione (ultimamente si è visto come, di caso in caso, gli atti di uxoricidio, alternativi al divorzio, si stanno perfezionando grazie all’attenzione morbosa e dettagliatissima che i media riservano loro). L’aderenza a determinati valori non è una questione di femminismi, di associazionismi, di comitati, di ideologie e di pubblicità progresso ma è una condizione privata, individuale e indiscutibile, imprescindibile dal proprio repertorio etico, coltivato nel domestico quotidiano e non delegabile alla protesta di piazza. Ecco il paradosso in cui si cade quando un popolo non ha una cultura condivisa: si crea l’assurdo che determinati assiomi siano tipici di  una categoria e non dell’intera comunità, quando in effetti non c’è una possibilità di scelta, non c’è un’ opzione, non esiste l’alternativa di aderire o meno alla lotta per i diritti umani ma esistono i diritti umani e vanno rispettati. Questa sarebbe stata la naturale evoluzione della nostra società, se fosse progredita più uniformemente, senza fretta, senza la necessità di somigliare subito, il prima possibile, a quell’Occidente di cui rappresenta, in effetti, la terra di confine: avremmo avuto il tempo di abbandonare la civiltà patriarcale, non solo nelle apparenze, ma anche nella sostanza, saremmo riusciti a capire che un figlio maschio non va protetto e accudito più di una figlia femmina, che essere suocere significa innanzi tutto solidarietà e aiuto, che essere padri significa rappresentarsi in famiglia con gli stessi diritti e doveri di una madre, che l’essere madre significa avere innanzi tutto la possibilità fisica, temporale e morale di esserlo, che essere donna significa essere una serie di cose molto complesse, tanto quanto l’essere uomo,  ma che, su tali differenze si fonda la nostra specie e la nostra naturale forza di aggregazione e non un inesistente antagonismo anti evolutivo e anti sociale.

Siamo ad un traguardo che purtroppo non vede vincitori ma solo una civiltà stanca e impoverita di tutti i suoi princìpi, tranne quello di correre verso la ricchezza e l’accumulo di beni; fallito anche questo proposito, ci resta poco: una cultura logora, arrivata al capolinea senza neppure meritarsi una riserva nella quale conservare quattro tradizioni per turisti, del nostro passato resta solo la confusione storica di un territorio  frantumato e il nostro futuro è durato talmente poco da  non averci dato il tempo di capire chi eravamo e se potevamo essere qualcosa che condividesse almeno lo stesso presente.
 E’ possibile che per tentativi, e non per saggezza, si arrivi alla scoperta dell’acqua calda  e abbandonata l’ultima utopia italiana del tiranno patriarcale che ci salva tutti, si torni a capire che spesso la soluzione sta semplicemente nel togliersi gli anelli dal collo, perché di belve non ce ne sono più, le abbiamo sterminate tutte, e i nostri principali nemici siamo solo noi stessi.

Elena Pascolini


1 commento:

Gianluca ha detto...

Assolutamente giusto scoprire l'acqua calda