Non dalla ricchezza
nasce la virtù,
ma dalla virtù deriva ogni ricchezza e ogni
bene,
sia per l'individuo che per gli stati.
(Platone)
Perché nessuno si preoccupa di togliere gli anelli dal collo
delle donne giraffa Kayan?
Mi riferisco a quelle tribù di origina birmane che trovano
attraente deformare il collo delle
bambine tramite un’impalcatura di anelli, che se in età adulta dovesse essere
tolta, causerebbe la morte dei soggetti a causa dell’impossibilità delle
vertebre di sostenere la testa, con
conseguente uscita di midollo osseo dalla colonna cervicale: abbastanza raccapricciate per essere solo una
pratica estetica.
In effetti il mondo umano non marcia alla stessa velocità e
soprattutto non condivide gli stessi valori e principi; solo alcuni,
probabilmente strettamente legati alla sopravvivenza, risultano universali,
mentre molti altri sono assolutamente tipici e peculiari di alcune civiltà:
questa è la principale ragione per cui si parla di Occidente , Mondo Arabo, Oriente
e un vago Terzo Mondo costellato di
tribù primitive e società che arrancano per conquistare un po’ di benessere,
spesso a stampo occidentale.
La cultura è l’insieme degli strumenti astratti e concreti
attraverso i quali le civiltà controllano, spiegano, e normano il loro mondo:
una sorta di bussola e nave che indirizza e muove le azioni di individui che si
riconoscono all’interno di una stessa
rotta. Tali strumenti originano
da numerosi fattori, molti dei quali riguardano regole che servivano
soprattutto all’igiene, alla salute, al controllo del territorio, dei beni e
degli individui: circondare il collo dei bambini con anelli di ferro difendeva
dall’aggressione di belve e aumentava la possibilità di sopravvivenza, nel
tempo si perde la memoria della funzione e rimane l’aspetto tradizionale che
diviene distintivo di un popolo e dei suoi criteri di giudizio.
La cultura, oltre che un’ origine, un contenuto, una funzione
e un modello di appartenenza ha anche una “velocità” che è proporzionale allo sviluppo tecnologico
ed economico e alla permeabilità e contaminazione con altre culture che
risultano dominanti; la dominanza è data quasi sempre da un maggior potere in
termini di capacità di sottomissione degli altri: significa che non vince la
cultura “migliore” ma quella che riesce
ad imporsi meglio, spesso attraverso la forza, la guerra, la dominazione e l’addomesticamento,
un classico esempio è quello delle tribù autoctone e tendenzialmente pacifiche,
ridotte in schiavitù, sterminate e infine conservate in riserve da invasori che,
alle volte, avevano modi molto più barbari e primitivi. Non fosse stato per le
armi ed il numero, la cultura dominante sarebbe stata quella che si era evoluta
in accordo con il territorio e le sue risorse.
Altra faccenda che divide gli antropologi è l’esigenza, per
lo più da parte della cultura dominante, di “conservare” i rimasugli dei popoli
che hanno in parte devastato, spesso, paradossalmente contro la volontà stessa
dalla minoranza, che aspirerebbe ad acquisire usi, costumi e benessere degli
invasori e non essere da questi costretta cibarsi di bacche, cacciare con
primitive asce e ad abitare capanne di
fango, quando a pochi chilometri da loro vivono persone con la macchina e la tv
satellitare.
Questo è il motivo per cui nessuno mette bocca sulle donne
giraffa Kayan: perché l’aspetto folcloristico, la curiosità e la
pretesa di conservazione di usi e costumi primitivi, al fine documentaristico e
di salvaguardia, è per noi più importante dell’ imposizione di valori etici
e morali
a difesa del diritto e della salute dei singoli soggetti. E’ anche
tragicamente vero che sollecitare la marcia culturale di popoli che vivono in
altri contesti, alle volte, genera ibridi che risultano addirittura
disfunzionali e disadattavi rispetto alle condizioni di vita.
Noi Italiani, che abitiamo un territorio già in origine
spaccato in quanto a usi e costumi, abbiamo subìto nell’immediato dopoguerra,
una violenta accelerazione del progresso e della ricchezza procapite, a cui non
ha fatto seguito una naturale evoluzione degli usi e dei costumi, anzi, da un certo
punto in poi si è resa necessaria una battuta d’arresto che ha abbassato la
qualità del sapere, per uniformarlo ad una popolazione che non ha fatto di necessità
anche virtù. Manchiamo di un indirizzo etico e morale condiviso, ci spacchiamo
di fronte a questioni quali le discriminazioni di genere, arrivando a paradossi
di inciviltà arcaica tali da negare che il fenomeno esista e sia allarmante,
così come deleghiamo alle stesse donne la difesa dei loro diritti, accentuando
ancora di più stereotipi e differenze di genere. Le donne non devono scendere
in piazza contro il femminicidio,
contro le violenze private e pubbliche, contro le disparità sul posto di
lavoro, contro la violazione dei diritti più banali e scontati che un essere
umano occidentale deve possedere, non è una cosa che devono risolvere le donne
il fatto che altre donne vengono ammazzate per futili motivi: è un fatto di
civiltà, è un fatto che riguarda tutti e che deve scandalizzare e muovere le
coscienze, soprattutto degli uomini.
In effetti dovrebbero essere gli uomini della tribù dei Kayan
a non trovare più attraenti le donne con il collo lungo per permettere alle stesse
di liberarsi dal collare, così come dovrebbero essere gli uomini che detengono
il potere negli ambienti di lavoro a non commettere abusi o discriminazioni di
sorta, sempre gli uomini dovrebbero essere coloro che tutelano, difendono e
proteggono la maternità in quanto bene comune, in quanto loro stesso bene, in
quanto loro stessa origine; le donne dovrebbero invece avere il tempo di
educare i loro figli, fin dalla nascita, al rispetto e alle buone maniere, intese come quelle norme di comportamento
condivise che guidano le azioni di un popolo e determinano in modo decisivo
cosa è giusto e cosa è sbagliato, con il risultato che, chi devia, è punito, non solo dalla legge, ma da una
gogna sociale che non perdona, riconducendo alcune azioni al concetto di tabù, inteso come gesto, idea, azione
inammissibile e proibita sia dal profondo dell’anima dell’individuo che da un
sentire comune. Ciò a cui assistiamo è
invece un processo inverso, in cui si tenta di cambiare la cultura attraverso la
persuasione e la divulgazione,
suscitando inconsapevolmente l’idea che sia possibile aderire o meno a un
movimento, protesta o ideologia, o arrivando all’assurdo di fomentare
differenze e antagonismi inesistenti, fino al terribile fenomeno
dell’emulazione (ultimamente si è visto come, di caso in caso, gli atti di uxoricidio,
alternativi al divorzio, si stanno perfezionando grazie all’attenzione morbosa
e dettagliatissima che i media riservano loro). L’aderenza a determinati valori
non è una questione di femminismi, di associazionismi, di comitati, di ideologie
e di pubblicità progresso ma è una condizione privata, individuale e
indiscutibile, imprescindibile dal proprio repertorio etico, coltivato nel
domestico quotidiano e non delegabile alla protesta di piazza. Ecco il
paradosso in cui si cade quando un popolo non ha una cultura condivisa: si crea
l’assurdo che determinati assiomi siano tipici di una categoria e non dell’intera comunità, quando
in effetti non c’è una possibilità di scelta, non c’è un’ opzione, non esiste l’alternativa
di aderire o meno alla lotta per i diritti umani ma esistono i diritti umani e
vanno rispettati. Questa sarebbe stata la naturale evoluzione della nostra
società, se fosse progredita più uniformemente, senza fretta, senza la
necessità di somigliare subito, il prima possibile, a quell’Occidente di cui rappresenta,
in effetti, la terra di confine: avremmo avuto il tempo di abbandonare la
civiltà patriarcale, non solo nelle apparenze, ma anche nella sostanza, saremmo
riusciti a capire che un figlio maschio non va protetto e accudito più di una
figlia femmina, che essere suocere significa innanzi tutto solidarietà e aiuto,
che essere padri significa rappresentarsi in famiglia con gli stessi diritti e
doveri di una madre, che l’essere madre significa avere innanzi tutto la
possibilità fisica, temporale e morale di esserlo, che essere donna significa
essere una serie di cose molto complesse, tanto quanto l’essere uomo, ma che, su tali differenze si fonda la nostra
specie e la nostra naturale forza di aggregazione e non un inesistente
antagonismo anti evolutivo e anti sociale.
Siamo ad un traguardo che purtroppo non vede vincitori ma
solo una civiltà stanca e impoverita di tutti i suoi princìpi, tranne quello di
correre verso la ricchezza e l’accumulo di beni; fallito anche questo
proposito, ci resta poco: una cultura logora, arrivata al capolinea senza
neppure meritarsi una riserva nella quale conservare quattro tradizioni per
turisti, del nostro passato resta solo la confusione storica di un territorio frantumato e il nostro futuro è durato
talmente poco da non averci dato il
tempo di capire chi eravamo e se potevamo essere qualcosa che condividesse
almeno lo stesso presente.
E’ possibile che per
tentativi, e non per saggezza, si arrivi alla scoperta dell’acqua calda e abbandonata l’ultima utopia italiana del
tiranno patriarcale che ci salva tutti, si torni a capire che spesso la
soluzione sta semplicemente nel togliersi gli anelli dal collo, perché di belve
non ce ne sono più, le abbiamo sterminate tutte, e i nostri principali nemici
siamo solo noi stessi.
Elena Pascolini
1 commento:
Assolutamente giusto scoprire l'acqua calda
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