"Chiunque non ha un buon padre
dovrebbe procurarsene uno."
Friedrich Nietzsche
dovrebbe procurarsene uno."
Friedrich Nietzsche
Orfani
di guide, di legalità, di cultura, di futuro, di certezza, di identità, di idee
nuove, di ottimismo e di educazione
brancoliamo alla ricerca di un padre che bonariamente ci sculacci con
una mano mentre con l’altra ci offre le
caramelle. Siamo fatti così: sappiamo
che nelle nostre vene scorre il sangue di una millenaria civiltà meticcia e
poco incline all’ordine e alla disciplina, ma affezionata all’idea che ci sia
sempre qualcuno pronto a levarci dai pasticci. Accettiamo anche di essere
redarguiti severamente e l’umiliazione di una cinghiata sulle chiappe se poi a
seguire c’è il perdono e il permesso di tornare a scorazzare in cortile con gli
amici, fino alla prossima pallonata sul vetro dei vicini.
In
effetti l’affettuosa severità del padre
di famiglia è ciò che si avvicina di più a ciò che dovrebbe essere un capo
ideale: fermo, affettuoso, disposto a comprenderci ma anche a indicarci la
retta via, complice quando occorre e severo quando disobbedire può costarci
caro, esempio e modello di vita da emulare, nella speranza di diventare un
giorno genitori degni della stima e del rispetto dei nostri figli. Quanti leader conosciamo relativamente vicini
a questo profilo umano? Pochi. Forse nessuno.
Dobbiamo
arrenderci all’evidenza che la maggior parte di persone che ricoprono ruoli di potere
non posseggono i requisiti che fanno di un uomo un capo. In molti
casi, le vie d’accesso ai vertici, seguono
logiche ben diverse dalla semplice attitudine: possiamo affermare, senza
offendere nessuno, che abnegazione, testardaggine, conoscenze, mirata
ossequiosità, competitività, parentele e aspettative personali hanno un peso maggiore
rispetto all’assertività, al carisma e purtroppo anche al sapere; più l’organizzazione è gerarchica
e particolarmente organizzata, più questo fenomeno è evidente. Ciò nonostante
può capitare di trovare dirigenti nei quali convergono le doti del buon padre
di famiglia e solitamente tutto l’organico beneficia in modo evidente di tale
stile di comando.
L’argomento
leadership meriterebbe una lunga trattazione, molte precisazioni e alcune
premesse prima di addentrarci in modo spavaldo in un terreno così complesso, ma
spero che mi perdoniate le necessarie semplificazioni dovute sia allo spazio
sia alla paura di annoiare: uno storico
studio di Kurt Lewin[1]
descrive come nei gruppi formali o informali emerga spontaneamente la figura di un leader
riconosciuta e implicitamente
incoraggiata dai membri a
svolgere il ruolo di guida, le caratteristiche di tale individuo coincidono con
quelle sopra riportate relative al buon padre di famiglia, tali qualità si
riassumono con il termine di autorevolezza,
ossia la capacità di guidare, unire, incoraggiare, mediare i conflitti,
coinvolgere e coordinare il gruppo, garantendo equilibrio e stabilità,
meritando rispetto e credito grazie alla propria personalità e condotta.
Come già detto tale figura non coincide
necessariamente con il leader istituzionale, ossia con colui che sulla carta
detiene effettivamente il potere decisionale.
La storia dell’organizzazione del lavoro
sottolinea come il fattore umano sia
coesistito parallelamente alle esigenze strumentali, alienanti e fredde, imposte dalle rigide
esigenze del profitto e della produzione, permettendo alle persone di tollerare
lo stress, moderare l’ostilità, intessere relazioni di mutuo aiuto, sostegno e
coalizione al fine di “sopravvivere emotivamente” in contesti molto ostili
all’espressione di sé e della propria individualità. Se consideriamo che in
tali ambienti passiamo la maggior parte del nostro tempo, comprendiamo come
tali dinamiche siano vitali alla sopravvivenza psicologica dei lavoratori. Nel
caso in cui un contesto lavorativo non gode dei servizi di un buon leader, il
gruppo tende ad eleggere al suo interno una figura che ne faccia le veci,
chiaramente tale figura non possiede lo stesso potere del leader formale, ma in molti
casi può determinare l’andamento del clima aziendale e anche della produzione,
in modo più significativo della dirigenza ufficiale. Quasi sempre tali persone,
una volta individuate dal re Giovanni della situazione, vengono immediatamente
neutralizzate, in quanto ritenute pericolose e destabilizzanti.
La storia della Sociologia del Lavoro racconta
anche di quanto breve e mutilata sia la vita e la prospettiva economica delle
aziende che adottano la frusta, il dividi et impera, il ricatto e capi
eccessivamente autoritari come formula di gestione delle risorse umane; al
contrario, una leadership conforme al nostro “buon padre di
famiglia”, sia in politica che nel mondo
del lavoro, tende a raggiungere in modo più efficace gli obbiettivi, a
mantenere coeso il gruppo e a gestire efficacemente sia le crisi che i
conflitti: è colui che anche nella bufera, se proprio non riesce a salvare la
nave, almeno salva i passeggeri; al contrario osserviamo sempre più spesso navi in preda alla burrasca e destinate alla deriva, piene di capitani che brindano
con champagne scaduto, aspettando di affondare o di morire di fame appollaiati
su uno scoglio, continuando a ripetersi che si è naufragati per colpa dei
passeggeri che hanno intasato i water con la carata igienica.
Un
padre prima di punire insegna e punisce solo dopo avere perdonato, perché sa
che è sempre complice e responsabile dell’errore del figlio e che l’esempio vale più delle parole, sa che
nei periodi difficili tutta la famiglia deve sacrificarsi ma l’affetto, l’ascolto
e il rispetto non si sacrificano mai, anzi, li si serve a tavola al posto
della bistecca; un buon padre di famiglia (potrebbe essere anche una buona madre
di famiglia, non cambia nulla), insegna ai suoi figli a superare i
pregiudizi e le discriminazioni, perché
sa che solo così saranno persone libere e capaci di scegliere da sole, un buon
padre di famiglia sa che regalare il giocattolo per farsi perdonare la sua
assenza, porterà i suoi figli ad amare troppo le cose e poco le persone, il
buon padre di famiglia è il leader che tutti vorremmo e non abbiamo e che tutti
vorremmo essere e non siamo perché, in
effetti, quanti padri conosciamo relativamente vicini a
questo profilo umano? Pochi. Forse nessuno.
Elena
Pascolini
2 commenti:
ti sembra che prendere a cinghiate un bambino, sia la dote di un capo?
certo, è bello essere presi a cinghiate e poi correre gioiosi a giocare in cortile.
elena, ma ti rileggi quando scrivi?
diana corsini
Perdonami Diana se la metafora non è risultata chiara, ma ovviamente non si parlava nè di bambini nè di cinghiate reali. Se hai avuto la pazienza di leggere il resto del testo, risulta poi chiaro quanto io ritenga inidoneo questo metodo, sia sul piano metaforico che reale.
Grazie per il tuo commento.
E.P.
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